Malattia clonale rara della cellula staminale
Occorre subito distinguere due forme di mielofibrosi:
- Primaria (idiopatica): non ha una causa conosciuta;
- Secondaria: ad una Policitemia Vera (PV) detta mielofibrosi post-policitemica o a una Trombocitemia Essenziale (TE) detta mielofibrosi post-trombocitemica.
Mielofibrosi primaria
(mielofibrosi con metaplasia mieloide)
È una rara e complessa malattia clonale della cellula staminale emopoietica caratterizzata da proliferazione mieloide e megacariocitaria, fibrosi midollare, emopoiesi extramidollare (descriverò queste caratteristiche nel corso dell’articolo).
Il nome della malattia (mielofibrosi) è legato alla presenza di fibrosi midollare cioè il midollo osseo è gradualmente sostituito da tessuto fibroso che ne modifica le caratteristiche non consentendogli più di funzionare regolarmente con conseguente riduzione delle cellule del sangue.
La mielofibrosi primaria appartiene al gruppo delle neoplasie mieloproliferative croniche le quali originano dalla trasformazione neoplastica della cellula staminale emopoietica cioè quella cellula presente nel midollo osseo da cui prendono origine tutte le cellule mature del sangue (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine).
Fanno parte delle neoplasie mieloproliferative croniche: la Policitemia vera (PV) caratterizzata dall’aumento dei GR (vedi articolo), la Trombocitemia Essenziale (TE) caratterizzata dall’aumento delle PLT (vedi articolo) e la Leucemia Mieloide Cronica (LMC) caratterizzata (salvo eccezioni) dalla presenza di un marcatore molecolare specifico detto cromosoma Philadelphia (vedi articolo).
Sinteticamente le principali caratteristiche della mielofibrosi primaria sono:
- alterazioni della struttura del midollo osseo che presenta un quadro progressivo di fibrosi e alterazioni più evidenti dei megacariociti (precursori delle piastrine). Le descriverò in dettaglio successivamente;
- leucoeritroblastosi: cioè presenza nel sangue periferico di precursori eritroidi (eritroblasti) e mieloidi (mielociti e metamielociti);
- emopoiesi extramidollare: le cellule staminali tendono ad uscire dal midollo andando nel sangue periferico e si depositano nella milza e nel fegato formando un tessuto simile a quello midollare che prolifera.Per tale motivo si hanno splenomegalia (ingrandimento della milza) ed epatomegalia (ingrandimento del fegato). Successivamente possono essere coinvolti anche altri organi quali: tessuto paravertebrale, linfonodi, polmone, apparato genitourinario, etc.
Epidemiologia ed eziopatogenesi (cause)
Si tratta di una malattia piuttosto rara. L’incidenza in Europa è di 0,25-1,4 casi ogni 100.000 abitanti per anno, con uguale distribuzione nei due sessi (alcuni autori affermano che c’è una lieve prevalenza nei maschi), ed un’età alla diagnosi di circa 65 anni (rari casi anche in età giovanile). Non è una malattia ereditaria ma è descritta una familiarità cioè ci sono famiglie più predisposte ad essere colpite da una malattia mieloproliferativa cronica.
L’insorgenza della mielofibrosi primaria sembra essere favorita dall’esposizione a solventi (benzene) e a radiazioni ionizzanti.
Quadro clinico
Il riscontro della malattia è in genere occasionale in quanto i pazienti all’esordio sono solitamente asintomatici. Generalmente i malati si rivolgono al medico perché l’esame emocromocitometrico eseguito per altri motivi si presenta alterato o perché accusano vaghi disturbi addominali quali gonfiore, ripienezza gastrica postprandiale, alterazioni dell’alvo, o notano un calo ponderale (pari al 10% del peso corporeo negli ultimi 6 mesi). Tali disturbi sono correlati con la splenomegalia (ingrandimento della milza) che è presente nel 95% dei casi.
La milza può raggiungere dimensioni imponenti raramente osservabili in altre malattie e spesso occupa non solo l’emiaddome sinistro ma anche a volte quello destro. Talora possono comparire dolori trafittivi in ipocondrio sin (parte alta dell’addome a sin subito sotto l’arcata costale) conseguenti a infarti splenici.
Seconda per frequenza è l’epatomegalia (ingrandimento del fegato) che è di minor entità rispetto alla splenomegalia ed in genere più tardiva. Tuttavia dopo splenectomia (rimozione della milza a scopo terapeutico) si può osservare un incremento talora molto rapido delle dimensioni del fegato che può esitare in insufficienza epatica. In una parte variabile dei pazienti sono presenti alla diagnosi, ma più spesso nel decorso della malattia, sintomi e manifestazioni legati alla carenza delle cellule del sangue. Ribadisco infatti che il midollo osseo sia per il processo fibrotico che lo coinvolge che per le alterazioni che colpiscono la cellula staminale perde progressivamente la capacità di produrre le cellule del sangue (GR, GB, PLT).
Altri sintomi più rari all’esordio che compaiono nel decorso della malattia alterando la qualità di vita del malato sono: astenia (stanchezza), anoressia (perdita dell’appetito), febbre (non dovuta a infezioni), sudorazione notturna, prurito diffuso. Nelle fasi avanzate della malattia il dimagrimento si aggrava provocando un quadro di cachessia.
Complicazioni
Ricordo solo le principali: trombosi arteriose e venose a carico di vari organi ed apparati (manifestazioni diverse a seconda dell’organo colpito), infarto splenico causa di dolori addominali intensi, calcolosi renale (dovuta all’iperuricemia cioè all’aumento dell’acido urico nel sangue che può causare anche gotta ), ipertensione portale cioè aumento della pressione nella vena porta (è un vaso che raccoglie il sangue proveniente dalla milza e da una parte del tubo digerente per convogliarlo al fegato) causata dal ristagno di sangue a livello della milza.
Quadro ematologico
E’ molto variabile a seconda dello stadio della malattia. Per semplicità mi limiterò a descrivere le caratteristiche principali.
Il dato più importante è l’anemia (riduzione dell’emoglobina) con i sintomi correlati: astenia (stanchezza), tachicardia (batticuore), pallore, dispnea (difficoltà respiratoria).
Caratteristico è il riscontro nel sangue di globuli rossi a forma di lacrima (dacriociti).
Nelle fasi iniziali della malattia più spesso si ha leucocitosi (aumento dei globuli bianchi), a volte leucopenia (riduzione dei globuli bianchi) con maggior suscettibilità alle infezioni. Anche le piastrine possono avere un andamento simile a quello dei globuli bianchi. La piastrinopenia (riduzione delle piastrine) è responsabile di manifestazioni emorragiche (epistassi: sanguinamento dal naso, ecchimosi: macchie violacee sulla pelle dette comunemente lividi, petecchie: piccoli puntini rosso violaceo sulla pelle in genere a gruppi, etc.). La piastrinosi (aumento delle piastrine) si verifica di solito nelle fasi iniziali della malattia, può essere necessaria una terapia citoriduttiva per ridurne il numero.
Uno screzio leucoeritroblastico è quasi sempre documentabile, caratterizzato dalla presenza in circolo di eritroblasti (globuli rossi immaturi) e di cellule mieloidi immature. Spesso i malati presentano in circolo un aumento delle cellule CD34 positive tale dato pur non rientrando nei criteri diagnostici costituisce un parametro utile sia per la diagnosi differenziale tra mielofibrosi (cellule CD34 positive in genere >di 10/microlitro) e gli altri disordini mieloproliferativi cronici sia per la valutazione dell’andamento della malattia. Ricordo che il CD34 è un antigene di superficie presente nell’1% delle cellule midollari e nell’0,1% delle cellule nucleate circolanti e rappresenta un marcatore di immaturità dei progenitori emopoietici mieloidi.
Diagnosi
La diagnosi di mielofibrosi è piuttosto complessa perché il quadro clinico è variabile in ogni paziente.Importanti sono l’anamnesi (raccolta di informazioni dal malato) e l’esame obiettivo effettuati dal medico.
Sinteticamente le principali indagini diagnostiche sono:
- Biopsia ossea è l’esame principale perché consente di valutare le caratteristiche del midollo cioè le alterazioni delle cellule midollari in particolare dei megacariociti (precursori delle piastrine) e la presenza di fibrosi. Non è invece utile l’aspirato midollare (prelievo di sangue midollare) perché non dà solitamente alcun esito a causa della fibrosi (puntio sicca);
- Esame emocromocitometrico di cui ho detto prima;
- Aumento della latticodeidrogenasi (LDH) il suo aumento è una misura indiretta della proliferazione cellulare e quindi dell’aggressività della malattia;
- Analisi citogenetica (studio del cariotipo cioè dei cromosomi). Le alterazioni più frequenti sono: delezione (perdita) di una porzione del cromosoma 13 o del cromosoma 20. Sono descritte anche trisomie (presenza di 3 cromosomi invece di 2) dei cromosomi 8 e 9 e anomalie del cromosoma 1. Le alterazioni cromosomiche sono importanti in quanto in base a queste la malattia può avere un andamento favorevole o sfavorevole;
- Analisi molecolari (studiano i geni). La mutazione del gene JAK2V617F è quella più diffusa nei malati affetti da mielofibrosi ma non è specifica per questa malattia perché la possiamo riscontrare anche nella PV e nella TE. Sono state identificate nella mielofibrosi altre mutazioni tra cui quella a carico del gene MPL (anche questa non specifica) e più recentemente quella del gene CALR;
- Studio radiografico dello scheletro: caratteristico è l’aumento della densità ossea più evidente in alcuni segmenti scheletrici (es. clavicole, corpi vertebrali, etc.).
Desidero sottolineare che la mielofibrosi primaria attraversa fondamentalmente due fasi:
- fase prefibrotica: precoce, nella quale le alterazioni cliniche e laboratoristiche sono più lievi e l’esame del midollo osseo mostra una cellularità incrementata, la fibrosi è assente;
- fase propriamente fibrotica: nella quale la fibrosi diviene prevalente sulla cellularità, la emopoiesi si sposta in sedi extramidollari e le alterazioni cliniche e di laboratorio diventano importanti;
Evoluzione e prognosi
A differenza della policitemia vera e della trombocitemia essenziale la mielofibrosi primaria è una malattia che determina una riduzione della sopravvivenza rispetto alla popolazione di riferimento. La sopravvivenza media dei pazienti affetti da mielofibrosi primaria dal momento della diagnosi è variabile tra 2 e 12-15 anni.
Le principali cause di morte sono: le emorragie, lo scompenso cardiaco, le infezioni e la trasformazione leucemica più frequente rispetto alle altre neoplasie mieloproliferative croniche.
Attualmente la prognosi di un paziente con mielofibrosi primaria viene definita in base al modello IPSS (International Prognostic Scoryng System). Vengono presi in considerazione diversi fattori: età avanzata (>60 anni alla diagnosi), anemia (Hb<10 gr/dl), leucocitosi (GB> 25.000 /μl), presenza di blasti (cellule immature) nel sangue periferico uguali o maggiori all’1%, presenza di sintomi sistemici quali febbre (non dovuta a infezioni), sudorazione notturna e calo ponderale. A seconda dell’esistenza di 1 o più fattori di rischio i pazienti sono stati suddivisi in categorie:
- Basso rischio: assenza di fattori
- Rischio intermedio 1: presenza di 1 fattore
- Rischio intermedio 2: presenza di 2 fattori
- Alto rischio: presenza di più di 3 fattori
Tuttavia poiché la malattia può cambiare aspetto nel suo decorso si è reso necessario sviluppare un modello dinamico che possa essere applicabile in qualunque momento della storia naturale della malattia nel singolo paziente. Questo modello è noto come DIPSS (Dynamic International Prognostic Scoring System) e contiene gli stessi fattori considerati nel modello IPSS ma con punteggio diverso.
Terapia
Innanzitutto occorre tener presente che non sempre, fatta diagnosi di mielofibrosi, il paziente deve essere sottoposto a trattamento. Infatti se il malato è asintomatico e le alterazioni dell’emocromo sono modeste possono essere effettuati solo dei controlli clinici periodici. Spesso tale atteggiamento desta preoccupazione nel paziente che si sente “trascurato”. E’ compito del medico rassicurarlo e fargli capire che i farmaci in uso non guariscono la malattia per cui l’utilizzarli anche precocemente non modifica il decorso di questa ma è causa solo di un’inutile tossicità.
E’ necessario invece intervenire se il paziente è anemico o presenta un’importante splenomegalia. L’anemia va trattata se grave con terapia trasfusionale. Se il valore dell’Hb è <a 10, ma non sono necessarie trasfusioni (ogni singolo caso va valutato a parte), si possono utilizzare: androgeni (ormoni maschili) e loro derivati come il danazolo, stimolatori dell’eritropoiesi come l’eritropoietina(EPO) che è un ormone prodotto principalmente dal rene che stimola la produzione di GR a livello midollare, immunomodulatori come la talidomide, cortisonici.
Voglio ancora ricordare l’uso degli antiaggreganti (in particolare aspirina) nei pazienti non piastrinopenici o affetti da altre patologie potenzialmente emorragiche per ridurre il rischio di trombosi specie sa hanno già presentato precedenti vascolari.
La terapia citoriduttiva si utilizza nei pazienti con splenomegalia progressiva e/o sintomi sistemici e/o piastrinosi e leucocitosi. Il farmaco di prima scelta è l’idrossiurea che è un citostatico abbastanza maneggevole ma non scevro da effetti collaterali. Nel caso di resistenza a questo farmaco possono essere utilizzati altri farmaci quali: busulfano, etoposide, melfalan, ARAC o anche IFN (Interferon) che però generalmente sono poco efficaci. Nei pazienti che non rispondono alla chemioterapia si può optare per la splenectomia (rimozione della milza) o per la radioterapia splenica. Entrambe queste opzioni sono gravate da importanti complicanze; per la prima c’è una mortalità del 6-8% mentre la seconda ha un’efficacia solo transitoria e crea il rischio di gravi citopenie (riduzione delle cellule del sangue).
Una terapia importante ed impegnativa è il trapianto midollare allogenico (TMO), da donatore compatibile. Obiettivo del trapianto è eliminare la malattia e ripristinare le normali funzioni del midollo.
Il trapianto attualmente si effettua utilizzando le cellule staminali presenti nel sangue periferico del donatore (sono presenti anche nel midollo, le procedure di raccolta sono diverse) che preferibilmente viene scelto in ambito familiare per la compatibilità. Prima di ricevere le cellule staminali il malato viene sottoposto ad un trattamento con citostatici e/o radiazioni (regime di condizionamento) per distruggere completamente le cellule del suo midollo “ammalate” e permettere l’attecchimento delle cellule staminali del donatore.
Il TMO è gravato da alta mortalità (30%), inoltre può insorgere una particolare malattia detta GVHD (graft versus host disease) cioè le cellule del donatore che sono state trapiantate reagiscono contro i tessuti e le cellule del ricevente. La GVHD che può essere acuta o cronica aumenta ulteriormente il rischio di morte per il paziente trapiantato e/o peggiora la sua qualità di vita. Inoltre il trapianto è spesso accompagnato da gravi problematiche infettive, tossiche ed emorragiche.
Il trapianto di midollo osseo (o di cellule staminali) è l’unica procedura in grado di guarire la malattia. Può essere effettuato però solo in casi selezionati e nei pazienti giovani (in genere <a 60 anni), inoltre molto spesso è difficile trovare un donatore compatibile (se non ci sono familiari compatibili si ricorre ai registri di donatori ma i tempi sono generalmente lunghi).
Nuovi farmaci
Inibitori di JAK2: sono farmaci a bersaglio molecolare cioè colpiscono in modo specifico la proteina JAK2 riducendone la funzione. Tra questi ricordo il ruxolitinib di cui molti studi hanno confermato l’efficacia sia perché migliora la sintomatologia che perché determina una riduzione del volume della milza. Recenti studi hanno dimostrato che può anche prolungare la sopravvivenza.
Altri farmaci: inibitori di mTOR (es. everolimus), immunomodulatori di seconda generazione (es. lenalidomide e panalidomide utili solo in pazienti con particolari alterazioni cromosomiche), inibitori delle deacetilasi istoniche (es. givinostat e panobinostat).
Suggerimenti
Non mi soffermo sulle norme che devono seguire i pazienti affetti da mielofibrosi quali: astensione dal fumo, attività fisica moderata, alimentazione corretta, precisione nell’eseguire i controlli programmati dal medico, in quanto le ho già illustrate negli altri articoli sulle neoplasie mieloproliferative croniche.
Ribadisco l’importanza della comunicazione medico-paziente. E’ dovere del medico fornire al suo paziente informazioni corrette sulla sua malattia, sul decorso clinico, sulle indagini da effettuare e sulle strategie terapeutiche da utilizzare calmando così le sue ansie e le sue paure.
E’ infatti solo con una buona comunicazione medico-paziente che si possono raggiungere risultati soddisfacenti.
dott.ssa E.L.